di Emilio Lonardo
Siamo abituati a vivere la città in maniera poco consapevole, cogliendo una percentuale decisamente bassa del paesaggio in cui siamo costantemente immersi, e attraverso pochi dei sensi di cui disponiamo, tendenzialmente la vista e l’udito. Ci spostiamo in spazi sempre maggiori con la facilità di un click e, aumentando considerevolmente i nostri territori percorribili, ci appoggiamo in luoghi minuscoli e impersonali che siamo ancora soliti chiamare case, senza accorgerci che gli spazi che abitiamo, di fatto, non hanno più pareti e pavimenti ammobiliati ma strade, percorsi e superfici.
Ad ogni istante, poi, esiste molto di più di quanto l’occhio possa vedere, più di quanto l’orecchio possa sentire, e tutto viene esperito in relazione alle sue adiacenze, alle sequenze di eventi e alla memoria delle precedenti esperienze. Molto spesso non abbiamo più legami di sangue, ma legami di fatto, che vivono di contatti virtuali e di incontri occasionali; ci ritroviamo a nuotare in un’apnea dove il tatto sociale e il gusto dell’impegno sono sensi assopiti, come assopito è il senso di comunità. Siamo gli abitanti delle città contemporanee.
In tale scenario così mutevole e fluido ancora cerchiamo luoghi che ci accolgano, che sappiano rassicurarci, raccontandoci memorie o suggerendoci nuove letture immaginifiche. Quando esploriamo l’ambiente urbano ci soffermiamo così nei suoi diversi 'interni', riconoscendoli come spazi a noi più prossimi, perché per vocazione più accoglienti ed ospitali dei territori ad edificazione indifferenziata. Semanticamente essi sono riferibili alla definizione di 'interni' proprio perché, pur a cielo aperto, sono spazi che rievocano la piacevolezza, la leggibilità e la «figurabilità» dell’abitare domestico.
Questi ambienti, troppo spesso ancora episodici negli agglomerati metropolitani, sono ontologicamente affini alle sperimentazioni partecipate, di cui dovrebbero teoricamente costituire una ricaduta immediata: la partecipazione, in quanto fautrice di un avvicinamento tra il cittadino e la città, dovrebbe favorire la strutturazione di spazi ad ampia riconoscibilità, caratterizzati da un 'accumulo di appartenenze' che li faccia percepire da ogni individuo come familiari.
Se per 'interni urbani' intendiamo dunque luoghi ospitali fortemente connotati, di semplice lettura ma ampio coinvolgimento, ed assumiamo per vero il postulato ideale che li vorrebbe esito privilegiato delle pratiche partecipative, essi dovrebbero anche essere assunti a manifesto dell’abitare post-moderno, che oggi più che mai grazie all’avvento rivoluzionario delle nuove tecnologie può esplorare nuove modalità di 'estensione' nell’urbano, nuove forme di estroversione, di narrazione o persino di intervento collettivo. In questo scenario in cui sempre più spesso la dimensione virtuale e la componente comunicativa prevaricano quella fisica, infatti, alcune interessanti sperimentazioni progettuali tendono a sfruttare la dimensione partecipativa propria dei canali digitali declinandola in una nuova sensibilità urbana, in grado di responsabilizzare, coinvolgere e rendere protagonista il 'cyber-cittadino'.
Sembra dunque oggi possibile rispondere al quesito filosofico ed estetico posto pochi anni fa da Massimo Cacciari, secondo cui il paradosso della città post-metropolitana risiedeva proprio nel suo destino essenzialmente 'de-territorializzante e anti-spaziale': 'il territorio post-metropolitano è la negazione di ogni possibilità di luogo, o potranno 'inventarsi' luoghi propri del tempo in cui la sua vita sembra essersi risolta?', si chiedeva. I nuovi scenari progettuali che si vanno affermando sembrano delineare una possibile risposta: sono approcci reticolari, che si diffondono spesso in modo spontaneo e a-pianificato, almeno rispetto al senso tradizionale di planning urbano.
Oggi la progettazione urbana sembra piuttosto alimentarsi di micro-iniziative, di processi che partono 'dal basso' e che si configurano così come una geografia di eventi, una messa in pratica di connessioni che diventano fondanti di paesaggi ibridi. Il risultato sono città sempre più imprevedibili, fatte di episodi che creano spazi, e di spazi come scenografie teatrali che accolgono il vivere urbano: si tratta di una urbanistica che potremmo definire ironicamente 'popup', che si auto-alimenta e si auto-dissolve, usando proprio la rete come strumento privilegiato di 'costruzione'.
Tuttavia, pur nella temporaneità delle azioni proposte e nella estemporaneità dei mezzi usati, queste iniziative spesso lasciano tracce indelebili nello spazio fisico (e mentale) delle città: contribuiscono a strutturarne nuove identità e, sempre più spesso, ne migliorano la capacità comunicativa, la qualità percettiva ed anche il comfort fruitivo. Dalla dimensione virtuale, 'social' e comunicativa alla dimensione fisica vera e propria, dalla dimensione collettiva a quella individuale (e viceversa), dal 'co-urbanism' a quello che ancora più esplicitamente potremmo chiamare 'e-urbanism', i processi di strutturazione dello spazio pubblico che si vanno diffondendo sono sintetizzabili in alcune macro-categorie operative.